Fannie Mae e Freddie Mac (rispettivamente Federal National Mortgage Association e Federal Home Loan Mortgage Corporation) sono due società create alle fine degli anni Trenta per garantire i fondi per il mercato immobiliare americano.
Sono formalmente società private dalla fine degli anni Sessanta ma hanno sempre avuto una linea di credito garantita per svolgere la loro “missione pubblica”.
Non prestano denaro ai privati cittadini, non sono loro a concedere mutui agli americani che vogliono comprare una casa. Fannie e Freddie i mutui li comperano, li assicurano, li impacchettano e li cartolarizzano, per poi rivenderli agli investitori sotto forma di titoli: sono quindi al centro del meccanismo di credit crunch che ha messo in ginocchio i mercati finanziari a partire dal mattine.
Tutti i big di Wall Street hanno in portafoglio derivati di questo meccanismo, la banca centrale della Cina detiene obbligazioni di Fannie Freddie per centinaia di miliardi di dollari, così come le istituzioni di Arabia Saudita, Russia e Giappone.
Negli anni la loro attività è cresciuta, fino ad arrivare a garantire 5.200 miliardi di dollari di mutui: un terzo della capitalizzazione della Borsa di New York e oltre un terzo del Prodotto interno lordo americano.
Tutto bene fino a un anno fa, fino a quando la crisi del mattone, le difficoltà dei subprime, hanno tolto il supporto ai loro bond. Fannie e Freddie negli ultimi 12 mesi hanno messo in bilancio perdite per 14 miliardi di dollari e la paura di un default ha fatto scendere del 90% il loro valore di Borsa in un anno.
In una spirale che ancora non è giunta al termine: nel secondo semestre dell’anno il tasso complessivo di prestiti ipotecari in ritardo con i pagamenti è salito al 6,41%, un record negli ultimi 30 anni.
In luglio l’amministrazione Bush aveva di fatto nazionalizzato le due finanziarie. Ora è arrivato, inevitabile, l’intervento diretto del Tesoro: pressato dalle vendite sulle obbligazioni di Fannie e Freddie operate dalle banche cinesi, e dal timore che queste possano scatenare le reazioni di altri istituti centrali.
Oltre che dalle difficoltà crescenti delle piccole banche, esposti su titoli a rischio: nei giorni scorsi è fallita l’undicesima banca degli Stati Uniti dallo scorso settembre, la Silver state del Nevada.
Un piano da 200 miliardi al quale dovrà seguire – probabilmente – con un nuovo presidente alla Casa Bianca – una riforma completa per i due giganti. “Così come sono pongono un rischio sistemico. Non possono continuare a vivere in questa forma: dobbiamo decidere se devono avere come obiettivo il massimo profitto o il sostegno all’acquisto di case per le famiglie”, ha detto il segretario del Tesoro, Henry Paulson. “Nelle prossime settimane – ha aggiunto Paulson – descriverò quale potrebbe essere una riforma di lungo periodo. Faremmo un grave errore se non usassimo questo periodo per risolvere i problemi strutturali che Fannie e Freddie presentano”.