Luciano Gianazza

Questa vuole essere una specie di Biografia.

Dico una specie perché non è lineare e, se si volesse scrivere qualcosa di più vicino alla realtà, di biografie bisognerebbe scriverne più di una a seconda dei periodi della mia vita e dei cambiamenti che sono avvenuti nel mio animo che mi hanno portato a conoscere sempre più nel profondo la mia essenza.

Una personalità è una successione di attimi. La somma di questi attimi è la sua attuale personalità, colorata o resa trasparente dall’intenzione e dalla consapevolezza dell’essere spirituale.

Questa è una descrizione della vita che si svolgeva intorno a me durante la mia infanzia, di cui alcuni particolari mi appartengono mentre altri, anche se parlo sempre in prima persona, appartengono ad altri bambini con cui giocavo e di sicuro anche ad altri di paesi lontani ma accomunati dal medesimo flusso di pensiero dominante di quel periodo nella cosiddetta classe operaia da cui provengo.

Ogni tanto capita di pensare a come eravamo, ai tempi addietro, per renderci conto di come il mondo è cambiato, e più anni aggiungi alla tua vita, più evidenti appaiono le differenze.

Sono nato nel 1950 un periodo che possiamo considerare una transizione dall’immediato dopoguerra al boom economico degli anni ’60.

Mio padre era un operaio presso una grossa fabbrica metalmeccanica, si occupava del montaggio di turbine per energia elettrica e motori marini. Quando ero bambino mi parlava spesso di Tesla, ma allora non avevo capito quasi nulla, se non che era un genio dell’energia e che faceva la corrente dal nulla con le calamite. Quando tornava dal lavoro si dedicava a “finire la casa” che mi pareva che non finisse mai, poi capii che dipendeva dalla disponibilità di denaro per acquistare sabbia e cemento.

Non avendo fratelli, mi sentivo solo in casa, per quanto mia madre mi facesse sentire al sicuro osservandomi e occupandosi di ogni mio turbamento.

Mia madre proveniva da una ricca famiglia del Monferrato, ma i suoi genitori morirono per malattie polmonari quando i figli erano ancora minori, come era abbastanza comune nei primi decenni del ‘900. I parenti depredarono tutte le ricchezze mobili ed immobili e mandarono mia madre e i suoi fratelli in differenti orfanotrofi, da dove uscirono al raggiungimento della maggiore età che allora era fissata a 21 anni.

Tralasciando i particolari traumatici della vita in un orfanotrofio condotto da suore nel periodo fra le due guerre mondiali, mia madre ebbe comunque un’istruzione prima come maestra e poi ad indirizzo commerciale.

In casa la sua istruzione si fece sentire. In un paesone allora di 10.000 abitanti dove si parlava principalmente in dialetto noi parlavamo l’italiano, con continue correzioni e l’insistenza del corretto uso del congiuntivo e del condizionale da parte di mia madre. Mi divertivo ascoltando mio padre che, per evitare le correzioni quando non era sicuro di quale modo usare, dopo aver iniziato una frase in italiano passava di punto in bianco al più familiare e permissivo dialetto lombardo. Mio padre era stato in un campo di concentramento in Francia quando era stata invasa dai nazisti, catturato mentre riparava una turbina a Bordeaux che era stata bombardata. Non me ne ha mai parlato, solo qualche accenno, quando mi rifiutavo di mangiare gli spinaci perché non mi piacevano, per dirmi che in certe occasioni si può festeggiare per il fatto di avere delle bucce di patate da mangiare.

Come tutti i bambini volevo essere accettato dai miei coetanei e far parte della banda di ragazzini che al termine delle lezioni scolastiche si radunava in un campo incolto nei pressi delle nostre case che usavamo anche come campo di calcio o per qualsiasi gioco che venisse in mente, in attesa di essere richiamati dalle urla delle rispettive madri per la cena.

I ragazzi più grandi erano i miei eroi, pendevo da ogni parola che dicevano, e facevo tutto il possibile per avere la loro approvazione, cercavo anche di parlare in dialetto, che non conoscevo, venendo per questo deriso. E quando parlavo in italiano ero deriso ugualmente. Il loro trattamento sprezzante lo accettavo come naturale perché ero il più piccolo e più gracile. Erano duri e furbi mentre io ero debole e inesperto. Ma un giorno tutto questo cambio. Con mia grande gioia un ragazzo più piccolo e più giovane di me si aggregò a noi, e sapevo che sarebbe stata solo questione di tempo prima di poter dimostrare la mia superiorità al nuovo venuto. E quando la banda decise di fare una gara di lotta, sentii che questa era la mia occasione. In precedenza non ero mai stato nemmeno preso in considerazione ma ora c’era un possibile contendente alla mia portata. E quando toccò a me, gentilmente, ma fermamente, dimostrai la mia netta superiorità. I ragazzi più grandi decidevano chi aveva vinto, e la vittoria non l’assegnarono a me, ma al ragazzo appena arrivato. Rimasi ammutolito, non era giusto, era evidente che avevo vinto io, l’avevo immobilizzato e non poteva più nemmeno muovere un dito!

Non riuscivo a capire perché mi avessero dato per perdente, ma poi ottenni le risposte. Sapevo che avevo vinto la lotta, ma questo non era sufficiente, non era la mia statura né la mia forza che mi avevano condannato, ma una qualità innata personale. Avevo capito che, indipendentemente da quello che facevo, non avrei mai vinto il rispetto dei miei coetanei, così ho smisi di provarci. Ma sapevo anche che i miei giudici avevano mentito, quindi per comprenderne il motivo iniziai ad osservare da vicino i miei ormai ex-eroi e cominciai a vedere i loro difetti innegabili. Non erano razionali, ma mi avevano giudicato con pregiudizio.

Sebbene fossero tutti più grandi di me, mi resi conto che rappresentavano una minaccia solo come gruppo. Quando ci incontravamo da soli faccia a faccia, non solo mi lasciavano in pace, ma sembravano anche un po’ nervosi in mia presenza. E nei giochi dove la strategia era necessaria, scoprii che avevo la meglio su di loro. La mia stima per i miei coetanei fu sostituita dal disprezzo.

Gli operai, all’uscita dal grande stabilimento che dava lavoro a più di mille, tornavano a casa spingendo con forza sui pedali delle loro biciclette Bianchi, Taurus, Legnano con i freni a bacchetta, entravano e si sedevano davanti al piatto di minestra.

Non doveva essere fredda e nemmeno bollente. Quando la minestra era fredda o troppo calda partivano brontolii e persino urla ed improperi in direzione della moglie in piedi davanti al tavolo, pronta a rimettere la minestra nella pentola a riscaldare sulla stufa o ad aggiungere un po’ di brodo freddo a seconda dei casi. Dopo anni le mogli ormai sapevano quale era la temperatura giusta per il proprio marito, quella che lasciava la cucina nel silenzio mentre “lui” trangugiava velocemente la minestra, il piatto di trippa, un paio di michette e un paio di bicchieri di vino.

Subito dopo i mariti si alzavano e rimontavano in bicicletta per andare al circolo a bere e a giocare a carte. A volte le mogli, vista l’ora tarda, mandavano i figli a ricuperare il padre ormai ubriaco facendosi strada fra la puzza di vino, la puzza di sigarette Alfa e Nazionali, e le risate sguaiate in risposta a chi si vantava di aver fatto sesso nel cesso del reparto con un’operaia disponibile.

Queste scene si potrebbero considerare standard, più o meno avvenivano in tutte le case dei miei amici coetanei. Cosa succedeva in casa del dottore o dell’ingegnere non potevo saperlo.

Sembrava che ci fosse continua ostilità, spesso velata dal silenzio o da falsi sorrisi, fra le donne e gli uomini nella lotta per guadagnare il pane quotidiano. Anche le donne non erano da meno. Ogni tanto mia madre mi mandava dal droghiere a comprare qualcosa e sentivo le clienti parlare a ruota libera sulle prodezze dei loro mariti, anche in mia presenza, pensando che non capissi il significato di quello che dicevano. Capitava che una si lamentasse di quell’animale ubriaco che l’aveva messa incinta di nuovo, seguita dal coro: “Che bestia, sono delle bestie!” Poi un’altra diceva che era passato abbastanza tempo e non poteva più evitare di aprire le gambe perché altrimenti lui avrebbe dato i numeri, e altri commenti simili sulle velleità sessuali maschili, seguiti dalle risate grasse delle signore.

Quel genere di vita e modi di rapportarsi fra i vari membri della famiglia erano considerati normali, come parte di un’esistenza rassegnata e anestetizzata in cui non si percepiva grande dolore, ma anche nessuna vera gioia. Persino i bambini prendevano le botte, piangevano finché durava il dolore fisico e poi ritornavano ai loro giochi interrotti, come se questo facesse parte della vita.

Avrei ancora molto da dire, buona parte degli abitanti vivevano nelle case operaie, molte costruite dal grande stabilimento, e la promiscuità inevitabile non raramente causava traumi infantili, ma mi fermo qui, credo di aver dato un’idea sufficiente chiara del mondo in cui vivevo.

Nella mia mente iniziò a formarsi il sospetto che la mia intera comunità, con le dovute eccezioni, era costituita da stupidi vigliacchi dello stesso calibro. Una realizzazione che l’esperienza raramente ha contraddetto ma che spesso ha confermato, e diventai un insensibile esiliato sociale.

Questo fu comunque un bene, perché in una comunità in declino, e questa società è in declino da diverso tempo, ogni cittadino che conserva il rispetto per la verità viene alienato dalla maggior parte dei suoi concittadini, perché sono sommersi dalle bugie. Non mi sono mai sentito veramente parte di questa società, ma nemmeno ho coltivato pensieri anarchici, ma una visione di una società migliore. L’essermi comunque liberato dalla necessità di ottenere l’approvazione sociale mi ha anche reso libero dai pregiudizi sociali, e di essere in grado di vedere la comunità più chiaramente, un distacco che è essenziale per l’osservazione oggettiva della società.

Sembra incredibile, ma in una comunità dove si parla il dialetto, dove il maestro dà la sufficienza a tutti in italiano “perché tanto dopo la quinta elementare diventeranno tutti garzoni di panettieri e barbieri o ragazzi da retrobottega”, in attesa del “posto con i libri” nella grande industria tessile o meccanica, chi parla in italiano diventava oggetto di discriminazione.

Ero diventato un meticcio sociale, accettato da nessuna classe. Il risultato nel mio caso è stato un iniziale risentimento amaro nei confronti della mia comunità, oltre al rifiuto di dover seguire una formazione universitaria e poi una carriera, così a 16 anni lasciai la scuola per andare a lavorare in una officina meccanica come tornitore sfornando noiosissime serie di migliaia pezzi identici per giorni e giorni, e l’unico momento di diversità e di quasi gioia era arrivare al completamento della serie, allestire la lavorazione per la nuova serie e vedere davanti a me un pezzo diverso da quelli della precedente serie, ma il giorno dopo tutto era uguale come prima.

Cambiai molti lavori, scegliendoli fra quelli che la mia istruzione pubblica incompleta consentiva di venire assunto.

Quando poi compresi che per avere posti di rilievo dovevo presentare il mio curriculum vitae, realizzai che era impossibile crearne uno che sarebbe stato apprezzabile, non potevo fare un ordine cronologico dei passati lavori, a causa dei vuoti causati dai lavori dove non avevano voluto assumermi in regola, dai lunghi periodi di intenzionale inattività lavorativa per i miei viaggi con zaino e sacco a pelo, e quindi non mi sentii mai realmente inserito in un tessuto sociale.

Uscito dal mainstream

Pensai di completare i miei studi e ottenere il famoso pezzo di carta, mi iscrissi nuovamente ai corsi serali di un istituto tecnico, ma alla fine smisi di frequentare, ormai avevo realizzato che non mi sentivo più parte della società del mainstream e che gli obiettivi di questa società non erano allineati con i miei, la realizzazione di non essere un mero corpo di carne ma un essere spirituale aveva monopolizzato la mia attenzione.

I veri obiettivi di un individuo sono spirituali e non coincidono con quelli del mainstream.

Ho lavorato parecchio sul mio carattere, non provo più alcun risentimento per persone, situazioni e avvenimenti del mio passato, mi sono reso conto che sono stati una scuola per la mia formazione come individuo.

Il rischio grande che ho corso è stato quello della possibilità di non incontrare gli insegnamenti di grandi esseri del passato che mi hanno portato a sperimentare la mia esistenza come essere spirituale. Limitando la propria esistenza al solo lato materiale si rischia di diventare un misantropo che odia il mondo.

Fra le cose importanti che hanno determinato un cambiamento nella mia vita e in me stesso c’è la consapevolezza che ognuno è responsabile di ogni cosa che gli “succede”. Davvero non c’è nulla che succeda ad un individuo che non sia stato lui a causarla, a dispetto delle apparenze.

Un’altra è il sapere, non il credere meramente, che esistono le vite precedenti, anche se vengono chiamate precedenti per facilità di comprensione, dato che viviamo in una realtà dove il tempo e lo spazio sono illusione.

E questo è l’inizio di tutto il resto che racconto in parte nei miei articoli.