di Peter Lehmann
traduzione di Anusca Mantovani
www.peter-lehmann-publishing.com
“Liberarsi dagli psicofarmaci”. Testimonianze scritte di esperienze con tranquillanti, antidepressivi, neurolettici, carbamazepina (stabilizzante dell’umore, in commercio anche come Tegretol, P.L.) e litio”. Questo è il titolo del libro che sarà pubblicato nel 1997/98.
Per la maggioranza di coloro a cui viene prescritto o somministrato uno o più degli psicofarmaci citati, il sapere che altri sono riusciti a liberarsi da queste sostanze, senza per questo essere ricatapultati nello studio dello psichiatra e nel reparto psichiatrico, è di vitale importanza. Per questo motivo cerco autori/autrici desiderosi di rendere conto delle loro esperienze personali in merito al cammino che porta alla sospensione e che adesso vivono liberi dagli psicofarmaci. Tuttavia sono anche alla ricerca di persone che per professione o convinzioni personali aiutano i pazienti psichiatrici a smettere gli psicofarmaci”.
A questo appello hanno risposto numerosi ex-pazienti psichiatrici intenzionati a contribuire con la loro storia. Hanno risposto anche alcuni esperti i cui interventi sono stati pubblicati nel libro. Una psichiatra di Berlino ha ritirato il contributo, precedentemente offerto, che verteva sulla possibilità di smettere gradualmente i farmaci col suo aiuto e con quello dei gruppi di auto-aiuto psicoterapeutico, presumibilmente per la paura (non del tutto ingiustificata) che il suo studio venisse letteralmente invaso da pazienti desiderosi di liberarsi dagli psicofarmaci. Siccome non ho ricevuto nulla da parte dei familiari ho inviato il mio appello anche all’associazione tedesca dei familiari dei “malati mentali”. Reazione: silenzio. La ragione di questo silenzio è da ricercare nel fatto che da anni i familiari organizzati in associazione ricevono gratuitamente informazioni e relazioni dalle case farmaceutiche?
Venendo meno, col passar del tempo, la mia resistenza contro le psicodroghe “Il quadro clinico mutò considerevolmente mostrando in prevalenza uno stupore catatonico”, così recitava la mia cartella clinica.
All’inizio, dopo che i miei genitori, a quel tempo residenti a Fellbach (in provincia di Stoccarda), ritennero necessario farmi ricoverare, mi ribellavo con tutte le mie forze al fatto di essere tenuto prigioniero nella clinica, privo di indumenti, contenuto e costretto a ricevere le cure contro la mia volontà. Poi, sotto l’effetto degli psicofarmaci la resistenza svanì. Sintomi del morbo di Parkinson, assenza di volontà, irrigidimenti muscolari assimilabili a paralisi, movimenti involontari ed incontrollati della mandibola (rabbit-syndrome ovvero tremore periorale), senso di soffocamento, incapacità di esprimermi in maniera vivace ed efficace, obesità e alopecia furono le manifestazioni che mi indussero a credere di essere davvero diventato infermo di mente e di “avere bisogno delle mie medicine”, in quanto senza cure avrei “subito avuto una ricaduta” – argomento principe dei miei colloqui con gli psichiatri. Avevo 27 anni e il mio grande timore era di diventare un lungodegente, così come era capitato a molti altri. Nel maggio del ‘77 chiamai quindi in aiuto mia moglie, dalla quale mi ero divorziato tre mesi prima, la quale, incurante del lungo viaggio, partì subito da Berlino, dove ero residente, alla volta del sud della Germania. Convenimmo che mi avrebbe aiutato ad uscire dalla clinica prima di Natale oppure che, in caso di fallimento, mi avrebbe procurato una quantità di barbiturici sufficiente a porre termine alle sevizie psichiatriche di cui ero oggetto. Ritornata a Berlino si mise in contatto con la mia vecchia amica Ellen la quale mi procurò un “letto” presso la clinica psichiatrica universitaria di Berlino-Charlottenburg, ubicata nel viale Nussbaumallee. E’ là che fui trasferito il 1 giugno 1977.
La terapia si differenziò solo per quanto attiene il dosaggio e quindi gli effetti degli psicofarmaci permasero anche in presenza di una dose dimezzata di Haldol e dell’aggiunto Taxilan 6. (E’ assai probabile che non mi sia stata detta la verità in merito al dosaggio e al tipo di neurolettici. Mi è stato infatti negato – con ogni possibile mezzo legale – di prendere visione della mia cartella clinica e perciò è anche del tutto lecito supporre il ricorso a sotterfugi illegali o all’affermazione del falso). Sempre più frastornato, e non più in grado di farmi la barba o di lavarmi i denti, venni infine dimesso, il 10 agosto, dal direttore della clinica, Sig. Hanfried Helmchen, senza essere stato prima interpellato e contro quel poco che restava della mia volontà, in quanto credevo fermamente di non essere più in condizioni di condurre la mia vita in maniera autosufficiente.
Siccome “avevo bisogno delle medicine”, così come mi veniva continuamente inculcato, mi recavo, da bravo scolaretto, all’appuntamento settimanale con lo psichiatra Adolf Pietzcker incaricato di sorvegliare l’evoluzione clinica post-ricovero (catamnesi), per farmi iniettare la fiala di Imap 7. Accadde poi che la coppia che mi aveva inizialmente ospitato mi comunicasse – senza tanti complimenti – che dovevo lasciare la stanza da me occupata. Avevano bisogno dello spazio per il loro bebé, che sarebbe nato di lì a pochi giorni. Devo tuttavia riconoscere che con il mio continuo tic nervoso alla mandibola e il mio ottuso mutismo non ero certamente un ospite gradevole.
In tutta fretta trovai un vecchio appartamento. I coniugi, con cui avevo coabitato, furono ben lieti di aiutarmi a trasportare le mie poche cose nella nuova casa. A questo punto ero praticamente lasciato in balia di me stesso, se si vuol prescindere dall’appuntamento settimanale con lo psichiatra – l’unico punto fermo ovvero contatto periodico che mi restava in un mondo ormai assolutamente privo di contenuti, di speranza e di gioia.
Giacevo a letto da mattina a sera, triste e sconsolato. Non mi andava nemmeno di accendere il televisore e non mi sentivo certo in grado di cucinarmi qualcosa. Una volta al giorno mi recavo nel negozio sotto casa per comprare due tavolette di cioccolata e alcune bottiglie di birra. E’ così che mi sono nutrito per alcune settimane. Quando Ellen venne a farmi visita inorridì nel constatare che dormivo sul nudo materasso, senza lenzuola e coperte. Cornelia, un’altra delle mie amiche che avevo messo a parte delle miserande condizioni in cui mi trovavo, si offrì di aiutarmi a sistemare l’appartamento. Tuttavia, dopo che provammo insieme ad affiggere un poster alla parete, rinunciò per sempre all’impresa.
Non riuscivo nemmeno lontanamente ad immaginare come sarei sopravvissuto all’imminente inverno. Come sarei riuscito a procurarmi il carbone? Chi doveva pensare al riscaldamento? Io? Vero è che avevo già abitato in appartamenti con la stufa a carbone, ma ora mi sembrava impossibile riuscire ad occuparmi di questa mansione. E il lavaggio della biancheria? Come sarei mai riuscito a lavare gli indumenti che portavo da settimane e settimane e che diventavano sempre più sporchi? Ma ancor peggio andava con il mucchio delle mie scartoffie. Fino a quel momento, ovvero per tutto il tempo in cui ero stato ricoverato, qualcuno si era occupato di pagare l’assicurazione malattie, l’affitto, altre simili spese ed inoltre delle pratiche per il mio rientro in università. Come sarei riuscito a sbrigare tutto questo, se non ero nemmeno capace di aprire la posta? Come avevo già fatto nella clinica di Berlino, sita nel viale Nussbaumallee, riflettevo sull’opportunità e sulle modalità con cui avrei potuto porre fine a quella mia vita da vegetale. Quando ero nella clinica di Berlino avevo paventato più volte di venire trasferito, prima o poi, in un qualche istituto per incapaci. Di un simile istituto, non lontano da lì e chiamato “Phoenix”, avevo sentito dire che alcuni ricoverati si erano dati la morte gettandosi, per disperazione, dai piani superiori. Per il momento abitavo in un mio appartamento, e non in un istituto, e quindi stavo spesso alla finestra, osservando la strada in basso. Quello che mi preoccupava era la certezza di morire, qualora mi fossi buttato dal quarto piano. Non volevo fare la fine del malato a vita che si spegne lentamente, perché mi era del tutto chiaro che la mia vita era rovinata, che non mi sarebbe mai più accaduto qualcosa di bello, per non parlare del verificarsi di una svolta. Quello che temevo era di fratturarmi “solo” la colonna vertebrale e di essere conseguentemente costretto in una sedia a rotelle. Questo timore e il dispiacere che avrei procurato a mia madre e al mio amico Ricci mi trattennero, almeno momentaneamente, dal fare l’ultimo passo. Pensavo anche agli altri amici ed amiche, ma per loro sarebbe stata una liberazione se io, ormai mentalmente minorato, fossi sparito dalla faccia della terra – per loro ero diventato solo un peso.
In quel frattempo mia madre mi aveva proposto di ritornare a Fellbach. Questa sì che era una soluzione. Mia madre si sarebbe occupata del mio vestiario, avrebbe cucinato per me ed anche sbrigato la mia corrispondenza e il riscaldamento non era certo affar mio. Successivamente mio fratello mi comunicò che mi avrebbe fatto visita all’inizio dell’ottobre 1977. Da tifoso che seguiva sempre la squadra del cuore in trasferta sarebbe venuto a Berlino per una partita della VfB Stuttgart. Pensai subito di riordinare la casa, ma non ci riuscii. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di cucinare qualcosa di caldo. Per terminare la serata mio fratello si aspettava che gli facessi conoscere la vita notturna di Berlino. Invece mi riuscì solo di trascorrere con lui un’oretta nella prima taverna che incontrammo. Infatti, intorno alle 20, mi sentii così spossato ed esaurito che dovetti rientrare a casa e mettermi subito a letto. Prima di continuare da solo il suo giro per conoscere Berlino “by night” mio fratello mi propose di andare ad abitare con lui e sua moglie Ingrid.
Dopo la sua partenza mi misi subito alla ricerca di un subinquilino, in quanto, subaffittando, non sarei stato costretto a pagare da solo, nei successivi mesi invernali, l’intera pigione di DM 180 (= € 92,03). Spronato dalla possibilità di poter presto lasciare il mio squallido e freddo bugigattolo riuscii a mettere un annuncio sul giornale. Ebbi due risposte, da un ragazzo e da una ragazza, tra cui dovetti, non senza qualche imbarazzo, scegliere. Mi decisi infine per Erwin che, a differenza della ragazza, possedeva una auto, il che avrebbe potuto facilitare le compere. Poco prima della partenza incontrai, per caso in metropolitana, una mia vecchia conoscenza, Brigitte R. Sebbene sembrasse dimostrare interesse nei miei confronti non ebbi il coraggio di approfondire l’amicizia, perché, se la relazione si fosse fatta più intima, non sarei riuscito a nascondere la mia fiacchezza, anche in campo sessuale. Ero certo di essere diventato impotente. Devo dire che già all’inizio del mio ricovero a Winnenden non sentivo più nessun stimolo sessuale. Durante tutto quel tempo non avevo avuto né un’erezione né una polluzione notturna. Raccontai a Brigitte R. di essere stato in una non meglio precisata “clinica” e di sentirmi ancora molto male. Ci accordammo che ci saremmo scritti durante il mio periodo di permanenza a Fellbach.
Quando mi recai per l’ultima volta da Adolf Pietzcker non gli raccontai nulla dei miei timori sessuali (durante tutto il periodo in cui sono stato psichiatrizzato nessun psichiatra e nessun terapeuta ha mai trattato questo tema), bensì della mia decisione di ritornare dai miei genitori. Mi diede una lettera per il neurologo di Fellbach, da cui sarei dovuto andare. Adolf Pietzcker temeva che l’irregolarita nel “trattamento farmacologico” avrebbe potuto comportare risvolti negativi.
Il 20 ottobre 1977, con la valigia piena di biancheria sporca e con la lettera informativa per il neurologo di Fellbach partii alla volta di Rommelshausen (nelle vicinanze di Fellbach) dove abitava mio fratello.
Siccome mi avevano inviato da un neurologo significa che ero malato di nervi. Di quando in quando in quel periodo avevo cercato di pensare a cosa mi ero successo e perché ero così sofferente. Ma riflettere mi riusciva difficile. Il Dott. Becher, neurologo e psichiatra, sembrava invece sapere il fatto suo a questo riguardo. Lesse la lettera informativa di Adolf Pietzcker, mi chiese brevemente che cosa avessi fatto prima del ricovero e dove abitavo adesso. A quel punto sembrava avere apparentemente tutte le informazioni necessarie. Il suo interesse verso la mia persona era così esaurito. Durante lo pseudo-colloquio, come ogni giovedì, mi iniettava una fiala di Imap nel posteriore. Non posso giurare che l’iniezione settimanale non sia mai stata preceduta da un dialogo. E’ del tutto possibile che le iniezioni siano state precedute da un “Come va Sig. Lehmann?” a cui io ribattevo “Non ancora meglio”.
I miei genitori si preoccupavano per me e facevano molta attenzione al fatto che io non mancassi gli appuntamenti col neurologo. Nel periodo in cui abitai presso mio fratello lavoravo nella piccola tipografia di mio padre, dove svolgevo semplici mansioni ausiliarie. Ogni giovedì a mezzogiorno mia madre telefonava in azienda per ricordarmi l’appuntamento. Anche mio padre si dava un gran da fare e stava attento a che non dimenticassi la visita di controllo.
Il lavoro che svolgevo era molto semplice e veramente molto noioso, tuttavia ero felice di avere qualcosa da fare, che ero in grado di eseguire sia intellettualmente che fisicamente e che mi distoglieva dai miei pensieri depressivi e strazianti. In qualità di figlio del titolare, e per di più in via di (supposta) convalescenza, tutti i collaboratori erano molto gentili con me e particolarmente gentile lo era mio padre stesso. Esaudiva i desideri, invero pochi, che sapeva leggermi negli occhi, mi portava dei Brezeln (NdT: ciambelle salate) e mi prestava perfino la sua auto. In quel periodo non mi furono mai rivolte parole scortesi o di punzecchiamento. Tutti erano comprensivi con me anche se, come spesso accadeva, la mattina non riuscivo a scendere di buon ora dal letto e mi presentavo al lavoro solo dopo la pausa per il pranzo.
Ero sempre apatico, continuavo a provare un senso di soffocamento alla gola, mi sentivo male e non era certo stimolato dall’idea di dover, forse eternamente, arrivare fino a sera di giornate sempre uguali e senza senso – a parte qualche eccezione. Una variazione sul tema era costituita dalla mia partecipazione all’allenamento bisettimanale di ping pong nella palestra di Fellbach. Mi faceva molto soffrire il fatto di avere ancora la mano per così dire paralizzata e di giocare quindi come fossi stato un principiante, ma il bello di quelle serate è che incontravo il mio amico Ricci, che per il resto non aveva molto tempo in quanto si doveva preparare per i suoi esami di elettrotecnica. Ricci si comportava con me come ai vecchi tempi. Certo non si divertiva molto a giocare con me, dato che erano poche le volte in cui riuscivo a ribattere la palla sul tavolo, ma mi faceva coraggio. Sarei riuscito a rigiocare bene, di questo lui era sicuro al cento per cento. Lui mi conosceva bene, non potevo aver improvvisamente disimparato a giocare. Quello che dovevo fare era provarci e riprovarci senza arrendermi mai.
Per mia cognata Ingrid, in stato di gravidanza avanzata, la mia presenza divenne ingombrante e quindi nel dicembre 1977 andai ad abitare presso i miei genitori. La mia situazione non era mutata. Il Dott. Becher continuava a farmi le iniezioni di Imap. Tutto mi era indifferente ed inoltre mi sentivo desolato, privato di ogni contenuto… in poche parole un uomo completamente finito. Dopo aver, in qualche modo, trascorso la giornata di lavoro dovevo ancora far passare la sera. Mia madre si dava un gran da fare ad aiutarmi. Giocava con me, mi sollevava di morale, veniva con me a fare delle passeggiate e mi incitava ad occuparmi del mucchio delle mie scartoffie, vale a dire assicurazione malattie, pratiche per il mio rientro in università, sussidio per l’affitto e tanto altro ancora, ed inoltre mi incitava a scrivere alla mia amica Brigitte R. ecc. Il tic nervoso alla mandibola e il tremore della mano non erano ancora scomparsi. Non avevo il coraggio di andare tra la gente e praticamente non riuscivo più a scrivere. L’unica cosa in cui ero un po’ migliorato era lo stare seduto davanti alla televisione. Riuscivo adesso a guardare fino in fondo le trasmissioni “Dalli dalli” di Hans Rosenthal, „XY ungelöst“ di Erich Zimmermann e „Grosser Preis“ di Wim Thoelk. Stavo migliorando? Mi costrinsi quindi a leggere. Ma dopo aver ricominciato a leggere per la decima volta la prima pagina di “Es muss nicht immer Kaviar sein” di Simmel, senza mai arrivare in fondo, mollai del tutto. Non era certo il caso di farsi false illusioni. Siccome non volevo dare a mia madre il grosso dispiacere di avvelenarmi mentre ero a casa, decisi che prima o poi sarei tornato a Berlino per poter colà, indisturbato, porre un fine a quella mia esistenza da vegetale.
A cavallo tra il 1977 e 78 il Dott. Becher mi cambiò la terapia, passandomi dall’Imap al Semap 8. Dovevo assumere quella compressa a lento rilascio una volta la settimana. Lo psichiatra andava per due o tre settimane in ferie e voleva evitare di mandarmi da un collega. Non ricevetti nessuna spiegazione sull’eventuale diverso effetto del Semap rispetto all’Imap, il che non mi sorprese più di tanto, dato che – per quello che ricordo – nessuno psichiatra si è mai sprecato a spiegarmi alcunché sulle “sue medicine”.
Siccome però, nella mia apatia, tutte le giornate erano uguali ed i miei genitori erano distratti dalle festività natalizie, mi dimenticai completamente del termine del giovedì. Solo il venerdì mattina mi sovvenne che non avevo assunto la pastiglia. Un improvviso terrore mi pervase. Da un momento all’altro avrebbe potuto arrivare la tanto pronosticata ricaduta, e allora che cosa sarebbe successo? Mi immaginai le cose più brutte. Avrei potuto essere di nuovo ricoverato a Winnenden, per essere poi, presto o tardi, rispedito a casa dai miei genitori. D’altra parte, visto che la ricaduta non si era presentata dopo il primo giorno in cui non avevo preso le “mie medicine”, perché non rischiare, tanto più che intorno a me avevo tante persone che mi volevano bene? Come avrebbe potuto cambiare altrimenti qualcosa nella mia situazione se continuavo ad essere sotto l’effetto degli psicofarmaci? Come avrei potuto affrontare i miei esami finali? Presi la decisione di provare a stare senza psicofarmaci, ma non dissi nulla a nessuno, perché nessuno avrebbe certamente capito questo mio gesto, apparentemente, irresponsabile. A quel punto ero dunque curioso di vedere quello che sarebbe successo.
Per prima cosa, dopo pochi giorni, diminuì la frequenza del tic nervoso alla mandibola. Col passare del tempo diminuì il senso di spossatezza. Riprovai a leggere un libro, questa volta un altro. Ci riuscii. In tre giorni lessi la storia della vita della vedova di Mao, lunga più di cento pagine. A due settimane dalla sospensione del farmaco il tic nervoso era completamente sparito. Notai inoltre di quanto fosse migliorato il mio umore.
Anche mia madre si accorse che non muovevo più incontrollatamente la mandibola e pensò che, a quanto pareva, le cose andavano finalmente meglio. Era arrivato il momento di confidarle che, in segreto, avevo sospeso i farmaci. Fu colta da una crisi di terrore e ansia. Telefonò subito al neurologo, nel frattempo rientrato dalle ferie, il quale le concesse un appuntamento immediato e, premuroso com’era, le promise che non avrei dovuto nemmeno attendere in sala d’aspetto e che mi avrebbe ricevuto subito. Avrei dovuto perlomeno andare affinché potesse parlarmi. Ma io mi rifiutai di andare da lui. Dissi a mia madre che poteva riempirmi a morte di botte, ma che non sarei mai più andato, di mia spontanea volontà, da un neurologo. Era terrorizzata ed impaurita. Inorridito fu anche mio padre quando la sera rientrò a casa: come potevo essere così insensato da non ascoltare le parole del medico? La sera tardi mio padre venne nella mia camera, mia madre non riusciva a prender sonno dalla paura, almeno per amor suo avrei dovuto prendere le “medicine”. Di nuovo mi rifiutai.
Man mano che miglioravo i miei genitori erano sempre più ben disposti verso il mio atteggiamento di rifiuto, tanto più che la tanto profetizzata ricaduta sembrava non annunciarsi affatto. Quello di cui ancora soffrivo era l’irrigidimento muscolare della mano, simile ad una paralisi. A quattro settimane dalla sospensione della terapia questo inconveniente non era ancora scomparso. Dovevo forse accettare il fatto che sarei rimasto uno storpio? Una sera – eravamo ormai a fine gennaio 1978 – stavo giocando a ping pong con Ricci, come al solito con la mano semiparalizzata, quando improvvisamente – nel bel mezzo di uno scambio di palle – riacquistai il senso del tatto alla mano, da un secondo all’altro. Adesso riuscivo a giocare come prima e a muovere la mano in modo del tutto naturale. Gli altri giocatori presenti, che prima non mi conoscevano e che mi avevano visto giocare solo con la mano priva di forza, non riuscivano a capacitarsi di questo mutamento improvviso. Se solo una settimana prima mi davano cappotto con gran facilità ora il rapporto era esattamente il contrario. Cercai di spiegare il “miracolo” e feci notare che avevo sospeso l’assunzione delle “mie medicine”, ma ovviamente, tranne Ricci, nessuno comprendeva quello che intendevo dire. Mi guardavano attoniti.
Visto che avevo riacquistato la salute decisi di ritornare prima possibile a Berlino per recuperare gli esami non dati. Lavorai ancora alcune settimane presso mio padre, dove guadagnavo bene. Poco dopo Pasqua 1978 – a quasi un anno dal mio ricovero a Winnenden – ritornai a Berlino guidando l’auto che i miei genitori mi avevano regalato a Natale.
Nella primavera del 1978, dopo il mio rientro a Berlino, presi contatto con Sabrina, che aveva cercato di sollevarmi di morale quando ero nella clinica sita in Nussbaumallee. Le somministravano dei neurolettici. Dubitando che mai qualcosa potesse cambiare nella sua situazione – a quell’epoca veniva trattata farmacologicamente nel così detto day hospital dell’Università – tentò di togliersi la vita nell’estate del 1978. Il tentativo fallì. Nella primavera del 1979 mi fece visita insieme a Laura, anch’essa in terapia con psicofarmaci. Alcune settimane più tardi venni a sapere che Laura era morta. A lei il suicidio era riuscito. Di mestiere Laura faceva l’attrice, un mestiere per il quale è particolarmente importante possedere una mimica vivace ed espressiva. Sotto l’influsso dei neurolettici la mimica è praticamente del tutto assente.
Alcuni mesi più tardi appresi da Ricci che mio padre aveva tentato di persuaderlo, come mio miglior amico, di persuadermi a riprendere le “medicine”. Ma Ricci – comportandosi veramente da mio miglior amico – contraddisse mio padre: l’unico a sapere se gli psicofarmaci mi facevano bene o male ero io e quindi ero io l’unico a poter decidere se assumerli di nuovo oppure no.
Dopo aver parlato a lungo coi miei genitori il loro atteggiamento verso gli psicofarmaci e gli psichiatri cambiò radicalmente. In occasione delle riprese di un documentario per la TV – girato all’epoca del processo da me istituito per poter prendere visione delle mie cartelle cliniche – ammisero entrambi di aver infine compreso come fosse stato assurdo dare ascolto agli psichiatri e farmi tante pressioni proprio nel momento in cui, dopo la sospensione dei neurolettici, rifiorivo davanti ai loro occhi. Io ero presente quando i miei genitori pregarono calorosamente i due redattori di mandare in onda questa autocritica. Quando il documentario venne trasmesso mancava proprio questo passaggio – per pura casualità.
“Relapse into life” – Copyright © di Peter Lehmann
tratto da: “Coming off Psychiatric Drugs” – Peter Lehmann Publishing – Berlin – Eugene – Shrewsbury
www.peter-lehmann-publishing.com
La traduzione dall’originale in tedesco è di Anusca Mantovani
Nessuno dovrebbe smettere di prendere qualunque psicofarmaco senza il consiglio e l’assistenza di un medico orientato a cure non prescrittive di farmaci che sia competente e soprattutto che non sia uno psichiatra che non abbia ripudiato la psichiatria. Gli psicofarmaci, come i farmaci in generale, sono sostanze tossiche e smetterne l’assunzione in modo non graduale, in alcune persone mette in moto immediatamente il processo di disintossicazione del corpo causando un’immissione nella circolazione del sangue di tali veleni in modo così violento da causare gravi effetti collaterali, incluso la morte.
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